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Rimodellamento delle coscienze – Walid Daqqa

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RIMODELLAMENTO DELLE COSCIENZE
OPPURE
LA RIDEFINIZIONE DELLA TORTURA
Di Walid Daqqa*

 

INTRODUZIONE

Il prigioniero Palestinese nelle carceri dell’occupazione israeliana sta sperimentando uno stato di impotenza che è il risultato delle sue difficoltà nel descrivere la sua condizione di oppressione che  vive dall’inizio della seconda Intifada. Concetti quali oppressione e tortura sono diventati di difficile definizione seguendo il pensiero corrente e moderno relativo ai diritti umani. Questo significa che le organizzazioni per i diritti umani devono fare degli sforzi eccezionali per documentare le specifiche violazioni; violazioni che i media e il sistema giuridico israeliano, che si autodefinisce rispettoso dei diritti umani e dei progionieri, considerano solo eccezioni alle regole. E quindi, contrariamente ad una presunta trasparenza, in raeltà queste modalità nascondono fatti e oscurano la verità.

L’oppresione moderna è camuffata. È un’oppressione senza forma, indefinibile con una sola immagine. È composta da  centinaia di piccole e isolate azioni e da migliaia di dettagli, nessuno dei quali appare come strumento di tortura, a meno che non si comprenda l’intera struttura e la logica del sistema sottostante. È paragonabile allo sfruttamento nell’economia del mercato libero sotto la globalizzazione, che viene presentato sempre come necessario per far aumentare l’indice della crescita economica. Il tuo sfruttatore non ha una faccia, una patria o un indirizzo. Le mani del sistema monopolistico raggiungono ogni angolo e si infiltrano in ogni dettaglio della tua vita, mentre tu, oppresso come lavoratore o consumatore, potresti diventare contemporaneamente un inconsapevole azionista delle stesso cartello che ti sta sfruttando. Quando  i confini fra sfruttati e sfruttatori vengono annullati, risulta quasi impossibile comprendere la forma di sfruttamento.

L’oppressione e la tortura nelle carceri israeliane non sono simili a nessun altro caso di oppressione e  tortura noti nella letteratura in tema di detenzione. Non si tratta di negazione seria di cibo o di medicinali; nessuno viene seppellito sotto terra o privato della luce del sole. I prigionieri non vengono incatenati coi ferri. Nella nostra era post moderna, il corpo del prigioniero, non  è più il target diretto; lo sono la sua mente e la sua anima. Le nostre condizioni non sono neanche quelle affrontate da Fucik, sotto il fascismo, così come descritte nel suo Notes from the Gallows, nemmeno quelle del Tazmamart Prisom raffigurato nel This Blinding Absence of Light di Taher Ben Jelloun. Qui non troveresti niente di simile a quanto descrive Malika Oufkir delle carceri marocchine. Noi non siamo ad Abu Zaabal e nemmeno ad Abu Ghraib, oppure Guantanamo. In queste carceri ognuno conosce il proprio torturatore, la forma di tortura e di strumenti usati; uno acquisisce la certezza sperimentando la tortura fisica. Però nelle carceri israeliane affronti una tortura più feroce in quanto civilizzata che trasforma i tuoi sensi e la tua mente in strumenti di tortura quotidiana, che strisciano tranquillamente senza farsi notare e senza far rumore diventando così parte della tua vita, assieme alla cella, al tempo, al cortile soleggiato e alla relativa abbondanza materiale.

La prigione viene presa come un esempio quale soggetto di questo studio: lo stato di perdita dell’abilità di interpretare la realtà, il senso di impotenza e la pardita di iniziativa non sono solo il destino dei prigionieri; questa descrizione si applica a tutti i palestinesi. La somiglianza delle condizioni dei cittadini palestinesi con quella dei detenuti, non si limita alla forma di oppressione nella quale i cittadini sono chiusi in separate enclave geografiche, come i prigionineri sono separati gli uni dagli altri in ale e settori, totalmente dipendenti dalla volontà del carceriere. La somiglianza è riferita essenzialmente allo scopo del carceriere: rimodellare tutti secondo la visione israeliana, che significa rimodellare la loro coscienza, e soprattutto rimodellare la coscienza della elite combattente rinchiusa in carcere. Quindi, per poter comprendere il quadro generale della realtà palestinese, è molto importante studiare la vita dei detenuti palestinesi, come una parabola della vita dei civili che vivono nei territori palestinesi occupati.

I prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane si lamentano di una condizione che non esiste. Inoltre sono incapaci di descrivere ciò che esiste. Sono incapaci di definire la forma e la fonte della tortura che affrontano. Le seguenti pagine non pretendono di essere uno studio scientifico; sono state scritte in carcere dove non sono disponibili risorse per ricerche. Dal momento che sono stato arrestato e quindi isolato dal mondo esterno da circa un quarto di secolo, lo scritto si basa principalmente sulla mia memoria, almeno quella parte della mia discussione che tratta la realtà nelle enclave create da Israele. Il mio obbiettivo principale è quello di spiegare che ciò che avviene nelle carceri più piccole non è semplicemente una detenzione con isolamento di chi viene considerato a rischio per la sicurezza di Israele, ma è una parte di uno schema più generale calcolato e scientificamente pianificato per rimodellare la coscienza palestinese. Il successo o il fallimento di questo schema dipende dalla nostra capacità di scoprirlo e capirlo in tutti i suoi dettagli, senza cadere nell’autodelusione e nell’autoinganno. Ciò di cui abbiamo bisogno è la chiarezza e una onesta ricerca scientifica, piuttosto che interventi entusiastici che glorifichino i prigionieri, le loro lotte e i loro sacrifici.

 

POLITICIDIO: DEGRADAZIONE SENZA ANNIENTAMENTO

La delegazione del Sud Africa che ha visitato la Palestina (1) è rimasta stupita per la estenzione e la natura delle misure imposte da Israele sui Palestinesi. Secondo loro le misure hanno ampiamente superato quelle adottate dai governi del sud-africa durante il periodo dell’apartheid. Nei periodi peggiori della segregazione razziale in sud africa, non ci sono mai state strade segregate per i bianchi e per i neri così come sono invece presenti nei Territori Palestinesi Occupati, strade per gli Ebrei e quelle per gli Arabi. La segregazione non è mai stata totale e assoluta come lo è qui; sono sempre rimaste delle zone dove i bianchi e i neri si incontravano. La cosa che ha maggiormente stupito la delegazione sudafricana e ha reso il termine “segregazione razziale” insufficiente per descrivere e definire i palestinesi sotto occupazione, è stato il sistema dei blocchi stradali che separa non solo i palestinesi e gli israeliani, ma anche gli stessi palestinesi. Come si sa, Israele ha diviso i territori occupati e ha creato varie piccole enclave rendendo la vita ai suoi abitanti particolarmente insopportabile.

Lo scopo finale delle politiche di Apartheid seguite dai governi israeliani a partire dal secondo anno dell’Intifada, si distingue dagli obbiettivi delle analoghe politiche portate avanti dai governi sudafricani. La differenza spiega le ragioni della totalità e della profondità delle misure israeliane e dell’assoluto controllo israeliano della vita dei palestinesi. Nel caso israeliano, il razzismo fondamentalmente è il mezzo attraverso il quale intende rimodellare la coscienza dei palestinesi, seguendo i piani dello stato ebraico. Il razzismo in questo contesto non è un fenomeno popolare spontaneo e illogico, ma è un razzismo organizzato, avviato dall’intero establishment israeliano con le sue giustificazioni morali, legali e logiche. Per Israele il problema reale non è rappresentato dalla leadership palestinese ufficiale; è la stessa comunità palestinese che rifiuta la soluzione massimalista israeliana, esprime di essere decisa a opporsi ad essa fornendo un flusso senza fine di combattenti delle organizzazioni della resistenza e rendendo così impossibile il raggiungimento di qualsiasi accordo con i negoziatori palestinesi. Moshe (Bogey) Ya’alon, ex capo dello staff delle forze di difesa israeliana, più volte ha dichiarato chiaramente e senza esitazione, che la coscienza dei palestinesi va modificata (2), e questo obbiettivo è ben presente nei piani militari dell’esercito. La divisione dei territori occupati in varie enclave va considerata in questo contesto, e cioè come parte integrante di un piano israeliano per rimodellare la coscienza dei palestinesi.

Agli inzi, l’esercito israeliano concentrava le sue azioni contro le infrastrutture materiali della resistenza con l’obbiettivo di rendere qualsiasi idea di resistenza molto costosa per gli indvidui e per l’intera società nel tentativo di raggiungere il punto di “rimodellare le coscienze”. Però queste azioni non hanno fatto altro che rafforzare l’infrastruttura morale della resistenza, dando così il risultato opposto: la produzione di un numero sempre crescente di resistenti. Quando ai leader israeliani e ai comandi militari questo è stato chiaro hanno rivalutato le vie ed i mezzi usati per “rimodellare le coscienze”. Elementi dell’infrastruttura morale della resistenza, cioè il sistema dei valori collettivi incorporati nel concetto di un popolo unico con obbiettivo condiviso dalla maggioranza dei suoi membri, sono diventati i nuovi target. Per poter rimodellare la coscienza palestinese distruggengo i suoi valori collettivi, penso che a partire dal 2004 Israele ha creato un sistema molto rigoroso, basato sulle ultime teorie di ingegneria umana e di psicologia sociale. Quindi il sistema Israele nella sua totalità costituisce un caso di ciò che Baruch Kimmerling definisce come “politicida” (3). Siamo di fronte a piani, schemi e posizioni che possano apparire a qualunque osservatore come componenti caotiche, confuse e contraddittorie della politica israeliana. In realtà questo “caos” mira a raggiungere i seguenti obbiettivi:

  1. distruggere l’economia, le organizzazioni e le strutture culturali e civili della società palestinese. Il loro funzionamento deve essere gravamente compromesso senza però indurli nel caos totale,
  2. aderire ai negoziati politici in corso, creando così l’illusione che una soluzione possa essere a portata di mano, subito dietro l’angolo. Contemporaneamente creare fatti sul terreno di modo che la situazione rimanga costantemente irrisolta ma non appaia in uno stato di stallo,
  3. distruggere l’auto-immagine del popolo palestinese demolendo i suoi valori collettivi. L’obiettivo è quello di colpire i gruppi e le forze centrali che incarnano tali valori come lo sono i prigionieri, in prima linea nel conflitto. Così, i palestinesi vengono ridotti a qualcosa di meno di una nazione, però ben lontani dall’annientamento materiale.

Le prigioni israeliane sono il laboratorio dove vengono sperimentate le politiche contro la condizione morale e sociale dei palestinesi. In un certo senso, ciò che avviene nelle carceri rappresenta la stessa politica portata avanti dall’esercito israeliano nei Territori Palestinesi Occupati. La somiglianza potrebbe essere utile per risolvere il problema concettuale della descrizione della realtà palestinese, alcune volte rappresentata come apartheid e altre volte come un ghetto. Comunque tutte queste interpretazioni descrivono solamente alcune aspetti della realtà. Per esempio, la segregazione fra gli stessi palestinesi non può essere descritta come apartheid; gli stessi enclave palestinesi non sono dei ghetti provvisori. Siamo di fronte alla soluzione finale dove il target non è il corpo dei singolo, non è lo sterminio collettivo, ma piuttosto è l’anima, ovvero lo sterminio della cultura e della civiltà palestinese (4).

 

LO SCIOPERO DELLA FAME COME UN SECONDO SHOCK: RIMODELLARE LA COSCIENZA DEI PRIGIONIERI

Quando Israele attacca e bombarda ripetutamente le città palestinesi e le aree abitate con gli aeri F-16 e gli elicotteri cannonieri Apache, o quando attacca i quartieri popolati con i suoi carri armati, o quando percorre qualsiasi strada o veicolo a Nablus, a Jenin o a Ramallah con i suoi enormi bulldozer Caterpillar distruggendo lungo il loro percorso le case con i propri abitanti dentro, non intende perseguire e annientare i piccoli gruppi di combattenti dotati al massimo di fucili AK-47 con una preparazione o esperienza militare scarsa o nulla.

Come hanno incessantemente dichiarato i suoi leader, Israele ha sempre cercato di raggiungere un “obiettivo molto prezioso”; dopo aver distrutto l’infrastruttura morale della resistenza, il suo obiettivo era quello di condurre i palestinesi in uno stato di shock profondo e quindi intervenire per rimodellare le loro coscienze. Con i palestinesi in stato di shock, Israele mirava ad agire sulle menti e sulle anime dei cittadini palestinesi per sostituire i loro valori nazionali con quelli pre-nazionali, rendendo così la società palestinese e la sua elite incapace di pensare in modo equilibrato e razionale. Questo concetto sta alla base dello smembramento dei Territori Palestinesi Occupati in tante enclavi. I palestinesi, impegnati ad affrontare i dettagli e le faccende di quella parte della patria dove vivono, diventerebbero incapaci di comprendere lo scenario nazionale. A questo punto, ci sarebbero le condizioni per l’avvio della fase per l’impianto dei nuovi valori. Questo è in sostanza il Piano Dayton, dove il pericolo sta nei valori che vengono insegnati alle centinania di giovani arruolati negli apparati di sicurezza. Così come la “Rivoluzione Palestinese” è stata sostituita dalla “Autorità Palestinese”, nel processo di mobilitazione dei giovani, certi termini come “autorità della legge” e “prevenzione del caos armato” prendono il posto rispettivamente di “lotta” e di “resistenza”. Lo slogan “Combattere la corruzione” invece di “Libertà e indipendenza” è diventato il focus del discorso politico. Questi nuovi slogan non appartengono al pensiero del  movimento di liberazione; sono stati invocati per far scomparire il movimento.

Nelle mie condizioni di vita, non sono in grado di elaborare come la dottrina dello shock è stata portata avanti nei Territori Palestinesi Occupati. Qui, vorrei descrivere quell’aspetto della dottrina che si collega con i prigionieri palestinesi durante e dopo la seconda Intifada. Quotidianamente arrivavano flussi di prigionieri e gli ufficiali dell’IPS (Israel Prison Service), li consideravano come una massa pericolosa da assorbire rapidamente e da tenere sotto stretto controllo. Avevano due opzioni:

  • attraverso il loro continuo trasferimento fra le varie istituzioni carcerarie, creare uno stato di instabilità e quindi negare ai nuovi prigionieri la possibilità di riprendersi d’animo e di agirere in sintonia fra di loro e con gli altri. Questa modalità previene la possibiltà per i singoli individui, sottoposti a certe regole, di formarsi in gruppo come corpo unico anche se tale trasformazione renderebbe più facile prevedere le loro eventuali future mosse e quindi il controllo,
  • dare al movimento dei prigionieri la possibilità di assorbire questa massa di nuovi detenuti nelle sue strutture organizzative pre-esistenti; quindi i rapporti progionieri/carcerieri continuerebbero come prima. Così facendo, l’IPS si protegge da comportamenti inaspettati da parte dei prigionieri, andando però va incontro ad un corpo organizzato e ad una forza morale combattente in grado di influenzare non solo chi è all’interno delle carceri, ma anche la popolazione palestinese e la sua leadership politica.

Dalla fine del 2003 e fino alla metà del 2004, l’IPS ha seguito la seconda opzione preparando contemporaneamente il terreno per poter applicare la prima. Fuori dalle carceri, l’opinione pubblica israeliana premeva per creare una leadership palestinese alternativa, un “partner palestinese” che avrebbe potuto firmare i “giusti accordi”. All’interno delle prigioni questo ha condotto alla separazione dei  leader simboli delle varie organizzazioni con il loro isolamento dagli altri prigionieri. Fatta eccezione di alcuni pochi casi, questo è stato compiuto con la misura dell’isolamento totale senza un limite di tempo definito. Più che essere solo delle misure punitive, si tratta di un passo avanti per la creazione di un vuoto nella leadership. In seguito allo sciopero della fame dei prigionieri del 2004, all’interno delle carceri è stata applicata una logica molto simile a quella della frammentazione dei Territori Palestinesi Occupati in varie enclavi. Nel momento in cui Yaakov Ganot, il nuovo capo dell’IPS, assumeva le sue mansioni, il nostro movimento nazionale dei prigionieri – così come lo chiamavamo – non era più lo stesso.

La situazione attuale viene descritta dai prigionieri di vecchia data come “materialmente alta” ma “moralmente bassa”. Non si tratta di una forma di nostalgia comune fra le persone di una certa età oppure di una semplice bramosia per il passato. In tal senso, i prigionieri non possono essere un’ eccezione. Una volta un prigioniero disse “nel passato eravamo l’uno con l’altro, ora invece siamo uno contro l’altro”. Risulta difficile comprendere il contrasto fra le condizioni materiali relativamente buone dei prigionieri e il deterioramento della loro situazione morale; l’oppresione non appare nella sua forma fisica conosciuta, esplicita e rude ora i prigionieri non sono più in grado di identificarla e di sviluppare di conseguenza i metodi per affrontarla.

Il governo del Primo Ministro Sharon ha cercato di rimodellare la coscienza dei prigionieri secondo il piano generale di rimodellamento della coscienza dei palestinesi. Per raggiungere questo obiettivo, è stato seguito il seguente percorso:

  • col gradito sostegno personale del Primo Ministro Sharon, a metà del 2003, il dichiarato razzista Yaakov Ganot viene nominato a capo dell’IPS. Il rapporto personale fra le due figure ha allontanato tutti gli ostacoli burocratici che avrebbero potuto ostacolare la ristrutturazione dell’IPS per renderla più adatta a svolgere le sue nuove funzioni. Sharon aveva garantito a Ganot la libertà di agire come desiderava; il suo budget è stato incrementato consentendogli di fornire le vecchie prigioni di moderne tecnologie di controllo e di costruire nuove carceri per le migliaia di nuovi prigionieri arrestati quotidianamente dall’Esercito Israeliano,
  • Ganot adotta una politica unificata per la conduzione delle prigioni applicabile su tutta la gerarchia, dal semplice guardiano al più alto ufficiale. Viene così reso chiaro che esiste un unico capo, uno unico centro decisionale. Non viene lasciato spazio per la spontaneità, per l’improvvisazione oppure per diverse interpretazioni delle regole,
  • appena insediato, Ganot ha cercato di scatenare il conflitto con i prigionieri in diverse carceri. Il primo scontro è avvenuto nel Carcere di Ashkelon (Asqalan); i prigionieri sono stati duramente soppressi con i lacrimogeni ed i manganelli riportando molti feriti. A questi scontri hanno fatto seguito ulteriori tappe che, col senno del poi, credo siano state premeditate. Queste tappe sono state disegnate per spingere i prigionieri nell’angolo dello sciopero della fame ad oltranza. Ganot aveva preparato tutto il necessario per trasformare lo sciopero della fame in un punto di svolta nella vita dei prigonieri. Voleva che lo sciopero si trasformasse in un secondo shock, magari più forte (dopo quello provocato dalle invasioni di massa e dagli arresti), al quale avrebbe dovuto far seguito il rimodellamento della coscienza e la brainwashing,
  • l’IPS ha cominciato a mettere in pratica frequenti ispezioni corporali ricorrendo a violenze mentali e fisiche contro i prigionieri. Durante le ispezioni dei prigionieri ed il controllo dei loro beni, come pure durante il loro trasferimento fra le varie carceri, l’IPS ha introdotto l’uso dei cani con l’obiettivo di umiliare i detenuti e ferire i loro sentimenti religiosi. Secondo la religione islamica, i cani rappresentano la contaminazione e l’inquinamento; una situazione che richiede appunto la purificazione. Questa politica ha segnato profondamente la mente ed il morale dei prigionieri ed è stata una delle principali ragioni che li ha spinti ad adottare la tattica dello sciopero della fame ad oltranza(5),
  • le sale per le visite sono state attrezzate con dei vetri divisori. I prigionieri non potevano più toccare i propri familiari, compresi i propri bambini. L’udito e l’ascolto sono cosi diventati l’unico canale di comunicazione. Questa misura è stata introdotta poco prima della dichiarazione dello sciopero: Ganot era sicuro che i prigionieri avrebbero rifiutato le visite, come risposta alla introduzione dei vetri divisori. Così, i prigionieri non hanno più le loro visite familiari perdendo il loro sostegno più importante quale aiuto per recuperare l’autostima, l’equilibrio mentale e la forza per sopravvivere.

Per la prima volta nella storia delle carceri israeliane, l’IPS ha spinto i prigionieri a dichiarare lo sciopero della fame: visto l’elevato numero di prigionieri inesperti, la leadership del Movimeto Nazionale dei Prigionieri ha cercato di affrontare questa nuova politica per attutire gli effetti delle sue dure misure sulla dignità umana ed i sentimenti religiosi dei prigionieri. Ha inviato all’IPS vari messaggi in questa direzione, ma sono stati tutti respinti. Allora, lo sciopero della fame è diventato l’unica opzione possibile.

Durante l’anno precedente, Ganot si era attrezzato di tutti i mezzi necessari per poter spezzare gli scioperanti come se stesse affrontando un grande esercito e non persone incarcerate con i loro stomachi vuoti come unica arma a disposizione. Aveva fatto affidamento sulle teorie moderne di psicologia sociale, di psicologia della guerra e di demagogia reclutando professionisti ed esperti esterni. Assieme avevano elaborato un piano dettagliato, perfino le piccole azioni quotidiane, dove niente viene lasciato al caso o alla interpretazione individuale. È stato fin da subito chiaro che eravamo di fronte ad un insieme di misure oppressive, spaventose per la loro razionalità, applicate contemporaneamente in tutte le prigioni, dal Carcere di Gilboa (Jalbu’a) al nord fino ad al-Nafha al sud. Queste misure sono state interamente sostenute dagli alti ranghi del governo israeliano. Il Ministro della Sicurezza Interna Tzahi Hanegbi, non avendo nessuna intenzione di allentare le nuove regole, aveva dichiarato ai media israeliani: “Per quanto mi rigurda, possono scioperare per un giorno, per un mese, fino alla morte” (6).

Queste misure, considerate separatamente, non superavano i livelli abituali e sopportabili di tortura. Però nel loro insieme, colpendo prigionieri deboli ed esausti, creavano uno stato di stress mentale. Fra le misure:

  • luci sempre accese nelle stanze, giorno e notte,
  • l’esproprio di qualsiasi mezzo che avrebbe potuto dare un sollievo fisico: i cuscini, i contenitori di plastica e le tazze che avrebbero potuto essere riempiti d’acqua e posti vicino ai letti dei prigionieri, impedendo così la possibilità di essere solidali con i prigionieri più esausti,
  • la confisca del sale da tavola: durante gli scioperi della fame, i prigionieri assumono il sale per prevenire danni organici permanenti. A tal proposito, l’IPS aveva vinto l’appello presentato da parte dei prigionieri alla Corte Suprema di Giustizia (HCJ). Inoltre, anche le sigarette sono state confiscate e questo procedimento è stato la prima misura adottata contro i prigionieri scioperanti,
  • sottoporre continuamente le stanze a dei controlli e alla “ricerca di articoli ed oggetti vietati”. Da sottolinare che le stanze sono state precedentemente svuotate da tutto lasciando a disposizione dei prigionieri solamente i letti. I detenuti venivano continuamente trasferiti da una stanza all’altra e da una sezione all’altra, talvolta anche due volte al giorno, aggravando così la stanchezza fisica dovuta allo sciopero in corso. L’obbiettivo di queste misure era quello di rompere i cerchi di conoscenze e di amicizie che si erano creati nel corso di anni di detenzione e quindi di indebolire il loro supporto morale e mentale,
  • il lancio continuo di appelli attraverso gli altoparlanti e la distribuzione di volantini per indebolire la convinzione dei prigionieri nello sciopero e la propria fiducia nei confronti della loro leadership. Venivano diffuse delle dicerie infondate sul conto di Hamas che avrebbe voluto lo sciopero per i propri tornaconti politici, che alcuni leader di al-Fatah avevano interrotto lo sciopero e così via,
  • l’organizzazione quotidiana di barbecue per i guardiani. In ogni sezione sono state allestite delle stanze anche per i prigionieri criminali comuni il cui ruolo era di cucinare, mangiare, mettere musica ad alto volume, giorno e notte,
  • il ricorso alla violenza e l’utilizzo del pungolo elettrico da bestiame durante il trasferimento dei prigionieri da un carcere all’altro, alla clinica della prigione oppure in ospedale per far accelerare i loro passi. Venivano usati anche i metal detectors alla ricerca di eventuali oggetti taglienti nascosti nei corpi nudi dei prigionieri,
  • il divieto per gli avvocati di visitare i prigionieri e di avere qualsiasi contatto con loro nel corso dello sciopero. Quindi, i prigionieri sono stati isolati completamente dal mondo esterno senza avere informazioni su eventuali campagne di solidarietà e manifestazioni di massa a loro sostegno.

Durante lo sciopero, l’IPS ha regolato le proprie azioni secondo gli sviluppi in ogni carcere ed in ogni sezione con risposte ben calcolate e non il frutto di scoppi di rabbia nei confronti dei prigionieri. L’IPS ha basato le sue azioni – per spezzare lo sciopero e per raggiungere i suoi obiettivi generali – sulle esperienze internazionali, per esempio quella dell’Intelligence Statenutense ed i suoi clienti in America Latina durante gli anni settanta. Dalle testimonianze depositate in un seondo tempo dai prigionieri arrestati e torturati dalla giunta militare in Argentina, emerge chiaramente che l’obiettivo principale delle torture alle quali sono stati sottoposti, non era quello di estorcere informazioni da loro, ma quello di indurli a tradire un principio fondamentale – il principio di solidarietà e di empatia nei confronti dei loro compagni. In altre carceri come Guantanamo e Abu Ghraib, i prigionieri sono stati spezzati e la loro personalità e salute mentale sono crollate attraverso l’utilizzo dell’Islam e delle convinzioni religiose contro prigionieri mussulmani. Nelle loro testimonianze si presentano due forme di tortura: rimanere denudati ed essere molestati continuamente sulle proprie credenze religiose (7).

Tenere i prigionieri palestinesi denudati, era già una prassi comune prima ma anche durante lo sciopero della fame ed in realtà, è stata una delle ragioni principale per proclamare lo sciopero. La maggior parte delle misure adottate nei confronti dei prigionieri, mirava in realtà a distruggere i loro sentimenti di solidarietà e i valori dell’agire collettivo a livello nazionale. La solidarietà aveva la capacità di trasformare i prigionieri da un gruppo di individui appartenenti a diverse fazioni, con varie credenze e ideologie, in un’unica forza nella quale riconoscersi. Distruggere questa solidarietà, che si è sviluppata nel corso di decenni di lotta dei prigionieri palestinesi, era cruciale non solo per porre fine allo sciopero della fame, ma anche per distruggere l’idea di un’azione collettiva per qualsiasi sciopero in futuro (8).

Senza lo shock dello sciopero della fame ed i suoi risultati, era del tutto impossibile portare avanti la nuova politica tanto desiderata dall’IPS. Solo in questa maniera, il progetto avrebbe potuto proseguire per rimodellare i prigionieri secondo le regole preparate ad hoc per loro. Prima dello sciopero, i prigionieri palestinesi potevano appellarsi a certi valori come il Movimento Nazionale dei Prigionieri, i Comitati per il Dialogo, lo sciopero generale e così via. Questi concetti rappresentavano i valori della lotta collettiva nazionale dei prigionieri. Per distruggere la struttura dei comitati nazionalisti, era necessario uno shock per minare queste idee collettive.

Attraverso lo sciopero della fame, i prigionieri non sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi con delle conseguenze che persisteranno per anni. L’IPS invece, frantumando il corpo scioperante, ha registrato un notevole successo. Infatti, lo sciopero non si è concluso nella maniera dichiarata inizialmente – e cioè in modo unificato, attraverso la decisione di un’unica leadership collettiva – ma in maniera caotica ed individuale, senza alcun accordo o piano. Ganot, da un ex ufficiale militare, sapeva che non bastava conquistare le roccaforti del nemico e spingerlo al ritiro; la ritirata e la sconfitta devono avvenire in modo caotico. In pratica, la fine dello sciopero è stata più un caos che un ritiro ordinato. La maniera disordinata con la quale si è concluso lo sciopero della fame ha assicurato il totale collasso della struttura della leadership in carcere, come pure di tutta una serie di valori condivisi che trasformavano ogni singolo individuo in soldato, in unità combattente. I prigionieri palestinesi erano a questo punto pronti per il rimodellamento delle loro coscienze.

 

I PASSI INTRAPRESI DOPO LO SCIOPERO: ABBONDANZA MATERIALE COME  STRUMENTO DI TORTURA

Nalla stessa maniera con la quale Israele ha smantellato attraverso le misure divisive nei Territori Palestinesi Occupati la lotta nazionale palestinese, anche i prigionieri sono stati individualizzati. Esiste un parallelismo fra le richieste di un gruppo di prigionieri, diciamo per esempio dell’area di Nablus, riguardanti un aumento del numero dei visitatori e della durata delle visite, con le richieste degli abitanti di Nablus che lottano per migliorare le loro specifiche condizioni di vita quali per esempio l’apertura dei blocchi stradali. Le sofferenze dei palestinesi, come le sofferenze dei prigionieri palestinesi, sono state frammentate in scenari locali dove ognuno resta concentrato sulla sua particolare sezione, con una suddivisione determinata dalla propria regione geografica. All’individuo non è più consentito di vedere o di interessarsi degli scenari più ampi: il suo campo visivo è bloccato, dal muro e dai checkpoints oppure attraverso il controllo del suo tempo. In seguito, sottoposto al giogo dei problemi quotidiani e della costante oppressione, collasserà.

Per realizzare la sorveglianza ed il controllo dei prigionieri dopo lo sciopero della fame, l’IPS ha cercato di sfruttare la conseguente depressione post sciopero della fame e la delusione nei confronti  della leadership. I passi più importanti intrapresi sono stati:

  • il rafforzamento delle diverse divisioni fra le varie carceri e all’interno delle stesse prigioni seguendo delle considerazioni geografiche. Così, il carcere di Gilboa (Jalbu’a) rinchiude ora i prigionieri originari del nord della Cisgiordania, da Nablus a Jenin. Due delle sue sezioni ospitano i prigionieri che hanno carte d’identità israeliane: una principalmente per quelli di Gerusalemme e l’altra per i palestinesi dei territori del ’48 (9). Tale divisione viene di solito presentata come un vantaggio per i prigionieri, in risposta alle richieste dei comitati per i diritti umani di trattenere i prigionieri in carceri vicino alle loro case. Tuttavia, questo criterio non spiega le suddivisioni interne, fra le varie sezioni, che avvengono per lo più secondo le zone di appartenenza, su scala ancora più ristretta. Per esempio, c’è una sezione speciale per gli abitanti della città di Jenin, e un’altra per i prigionieri del campo profughi di Jenin; c’è una sezione per i prigionieri di Qabatiyya e dei villaggi circostanti, una per Tulkarem e un’altra per Qalqiliya ed i suoi villaggi. Questa suddivisione coincide con le varie enclave che Israele ha creato nei Territori Palestinesi Occupati. Quindi, le divisioni geografiche generano affiliazioni geografiche che vanno a sostituire quella nazionale,
  • l’interruzione dei contatti dell’IPS con i Comitati per il Dialogo. Prima dello sciopero, ogni prigione aveva un comitato eletto, rappresentativo di tutte le fazioni politiche, il cui compito era di presentare alle autorità le richieste ed i problemi comuni di tutti i detenuti in quel carcere. Ora questo meccanismo è stato sostituito dal portavoce di ciascuna sezione, che nei fatti finisce di rappresentare una determinata area geografica. Questo portavoce viene scelto dall’amministrazione del carcere fra due o tre nomi suggeriti dai prigionieri. Gli incontri vengono tenuti separatamente con ciascun rappresentante. A lui è consentito solo di discutere dei i problemi riguardanti la sua sezione/regione di solito per problematiche personali. È sempre lui colui che deve riportare ai prigionieri gli avvisi e le regole dell’amministrazione. Così facendo, l’IPS ha svuotato la funzione rappresentativa del suo contenuto nazionale,
  • la risposta a qualsiasi segnale di lotta, pur modesto e simbolico come potrebbe esserlo il rifiuto del pasto, viene data con pesanti punizioni individuali o collettive,
  • risulta rigorosamente vietato qualsiasi gesto collettivo: la consolazione in caso di un decesso, l’accoglienza di un nuovo prigioniero o una festa di addio per il rilascio di qualcuno. Anche se le preghiere del venerdì sono tuttora consentite, esse non possono trascendere le materie religiose. Un’eventuale discussione sulla situazione palestinese, oppure anche il semplice citare la Palestina, viene considerato come espressione di opinioni e la libertà di espressione è negata,
  • i prigionieri che conservano le foto di leaders palestinesi oppure di martiri vengono severamente puniti; per esempio con l’isolamento, la proibizione delle visite e con delle multe. Le fotografie, che non possono essere esposte in pubblico, di solito vengono prese dai giornali in lingua ebraica. Il martire potrebbe anche essere una persona molto vicina al prigioniero. Fonfamentalmente la libertà di pensiero è vietata, ancor di più quando coinvolge sentimenti di affiliazione ad una lotta o di apprtenenza ad una nazione,
  • nel corso di decenni di detenzione, il Movimento Nazionale dei Prigionieri ha dato forma alle tradizioni organizzative per risolvere i conflitti interni. Queste tradizioni si basavano sul principio della giusta rappresentazione delle fazioni politiche con l’intento di rafforzare lo spirito democratico. C’erano dei codici di condotta sulla rotazione della leadership ed il suo rinnovo e rapporti periodici per assicurare la trasparenza e così via. Per contrastare questa realtà ed ostacolare questo processo democratico, l’IPS ha cominciato a trasferire gli attivisti secondo criteri nazionali ed organizzativi,
  • attraverso gli appelli individuali, l’IPS ha favorito i contatti diretti e personali con i prigionieri. Gli appelli dei prigionieri non devono più essere presi in considerazione dalla collettività ad eccezione di casi rari e comunque non significativi. La maggior parte dei problemi presentati e le soluzioni raggiunte sono relativi al singolo prigioniero. Come conseguenza, le autorità hanno sviluppato delle condizioni di vita e modalità di trattamento differenziate lasciando però in vigore le punizioni collettive in seguito alle violazioni individuali. Questa “collettivizzazione” mira a mettere i prigionieri uno contro l’altro; i prigionieri diventano così degli agenti dell’autorità del carcere più che compagni di detenzione.

Tutte queste misure sono state adottate per trasformare il prigioniero palestinese da soggetto attivo, con le proprie personalità e convinzioni, a un oggetto passivo, ricettivo, immerso nei suoi fabbisogni materiali primari creati a hoc secondo il desiderio del suo carceriere. Gradualmente, tali bisogni diventano la sua preoccupazione principale. Così facendo, l’IPS rende l’acquisto dei beni da parte dei prigionieri non solo possibile ma necessario (10); è come se stessero dicendo al prigioniero palestinese: mangia, bevi, preoccupati di tali bisogni finché non diventi un soggetto che comprende e interpreta la sua realtà e pensa al proprio destino come pure fanno i tuoi compagni.

Le condizioni materiali di vita, relativamente ragionevoli, si sono rivelate per noi, prigionieri palestinesi, una trappola che va analizzata ed i suoi meccanismi smascherati. L’abbondanza materiale, presentata da Israele come esempio di alleggerimento dell’occupazione e di risposta a quanto richiesto dalle associazioni per i diritti umani, si rivela per noi una modalità di tortura. Molto probabilmente i prigionieri palestinesi sono gli unici prigionieri nella storia dei movimenti di liberazione che ricevono mensilmente delle pensioni per coprire le proprie spese in carcere, come se fossero degli impiegati dell’Autorità Palestinese (11). Il fatto che lo Stato di Israele, sempre attento a tenere traccia delle finanze con il pretesto di perseguitare “le sovvenzioni del terrorismo”,  accetti il trasferimento di soldi ai prigionieri, solleva non pochi dubbi. Addirittura non pone alcuna obiezione al trasferimento di enormi somme da distribuire ai prigionieri. Ovviamente questa situazione mette in discussione il ruolo dei fondi trasferiti e le sue conseguenze sui prigionieri ed il loro ruolo nella lotta.

Le somme che vengono erogate mensilmente a favore dei prigionieri attualmente in stato di detenzione (12) – per i costi delle mense e per le pensioni mensili – ammontano a diversi milioni di dollari. A questa somma occorre aggiungere i costi per le multe imposte sui prigionieri che vengono sempre coperte dall’Autorità Palestinese (13). Per le finanze palestinesi, si tratta di cifre enormi. Il problema non è nel fatto che tali fondi vengono spesi a favore dei prigionieri, per assicurare loro qualche risorsa materiale, e per garantire una vita dignitosa alle loro famiglie. Va sottolineato che la metà di questi fondi viene spesa per i prigionieri all’interno delle carceri, e ciò significa che stiamo finanziando la nostra stessa detenzione rendendola addirittura redditizia per Israele. Secondo gli accordi firmati da parte del Ministro Palestinese per gli Affari dei Prigionieri, le aziende che forniscono le prigioni di cibo e di prodotti per le pulizie sono israeliane. Alcuni articoli vengono garantiti in quantità prefissate dall’IPS, senza che i prigionieri debbano acquistarli a proprie spese. L’Autorità Palestinese sta sovvenzionando la detenzione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane; tali sovvenzioni sono garantite grazie a fondi speciali provenienti dall’Unione Europea e da Paesi Donatori (14). Nei fatti, Israele non solo viene sollevata dal fardello economico della detenzione dei palestinesi, ma la sua politica di detenzione viene così riconosciuta e legittimata. Inoltre, l’Autorità Palestinese deve anche coprire i fabbisogni speciali dei prigionieri originari della Striscia di Gaza in quanto le visite dei loro familiari sono vietate. L’Autorità Palestinese adempie a questi impegni invece di agire affinché Israele assuma la responsabilità della sua politica di detenzione, conducendola davanti alle corti internazionali per un giudizio sulle sue violazioni degli accordi internazionali.

Il prigionero palestinese, il cui unico interesse era solo la lotta di liberazione, diventa un componente di un settore, quello dei dipendenti governativi, con propri interessi economici e richieste. Quindi la sua lotta non è più diretta contro il governo dell’occupazione e il suo Servizio Carcerario, ma contro l’Autorità Palestinese in quanto suo “datore di lavoro”! In altre parole, stiamo finanziando volentieri un piano israeliano che mira a trasformare i prigioneri – cuore duro della lotta palestinese – da forza consolidata con interessi nazionali e valori condivisi, in individui immersi nelle loro richieste e preoccupazioni private.

Inoltre, le condizioni materiali nelle quai vivono i detenuti provocano in essi uno stato di disordine mentale e sociale, anche se per molti prigionieri le loro condizioni sono decisamente migliori di quelle dei loro familiari che vivono nei Territori Palestinesi Occupati e senza confronto rispetto agli abitanti della Striscia di Gaza in stato d’assedio. Il prigionero diventa confuso in quanto non riesce più a distinguere laddove finisce il carcere e dove inizia la libertà: fuori dove ci sono i cantoni e le riserve, oppure qui nei centri israeliani di detenzione. Questa realtà fa parte di una deliberata politica che mira a togliere ai prigioneri tutti i concetti vitali, ad individializzarli e a distruggere qualsiasi possibilità che possa trasformarli in un collettivo. In queste condizioni, le possibilità di sfruttare l’abbondanza materiale per elevare il livello di coscienza nazionale sono scarse anche se non può essere presa come un pretesto o una scusa.

La tortura non è più una condizione materile. L’obiettivo non è più il corpo del prigionero, ma la sua mente già sfigurata. In materia di tortura, nell’era post moderna, l’abbondanza materiale, fra tanti altri, è uno strumenento di tortura. Quindi diventa necessario ri-identificare la torura e l’oppressione ed analizzare la loro nuova complessità. In questo periodo, i cambiamenti che sono avvenuti in un anno, in carcere – spazi, cultura e gente – sono infinitamente minori di quelli che si sono verificati fuori delle prigioni. La perdita di contatto con la realtà fuori dal carcere, anche dopo qualche mese di detenzione, diventa catastrofica. Al giorno d’oggi, i progionieri perdono rapidamente i contatti con la civiltà, con i valori e le relazioni sociali. Dopo aver trascorso anche pochi anni in prigione, i detenuti diventano relativamente primitivi rispetto alla lettura della realtà fuori. Questa perdita di contatto con la realtà viene sfruttata dall’Occupazione e dai suoi meccanismi, IPS compreso, per far precipitare il loro disimpegno, per far si che i prigionieri si stacchino da qualsiasi progetto nazionale oppure pensiero collettivo e spingerli in uno stato di esilio, di rigetto della lotta, oppure, nei casi più fortunati, in una condizione di vita passiva a carico della loro causa nazionale.

 

IL CONTROLLO MODERNO: GLI ASPETTI PIÙ PERICOLOSI DEI NUOVI VALORI NELLA VITA DEI PRIGIONERI PALESTINESI

La sostanza della modernità consiste nella capacità della persona di separare il tempo dal luogo. Nel passato, per poter avere potere sulle persone, si dovevano controllare i loro luoghi; nei tempi moderni, questo non è più necessario, basta controllare il loro tempo (15). I prigioneri non possono più organizzare alcun programma secondo i propri piani. Non possono trascorrere il tempo nelle loro celle senza continue interruzioni. La loro giornata è scomposta in unità: escludendo il tempo che si trascorre per le passeggiate in cortile, al detenuto nelle prigioni israeliane viene chiesto di uscire dalla propria cella tre volte al giorno per effettuare i controlli di sicurezza. Per sette volte al giorno, ciscuna volta della durata di un’ora, non può fruire dei servizi sanitari: tre volte nel corso dei controlli di sicurezza e le altre quattro durante le chiamate per la conta dei prigionieri.

Questa forma di controllo ha una serie di ricadute sulla vita del prigioniero, sull’autostima e sulla  percezione di se stesso. Contemporaneamente essa rimodella il comportamento dei guardiani e la loro concezione del proprio ruolo all’interno di un meccanismo burocratico come è l’IPS. Nelle carceri dell’Occupazione Israeliana, il controllo non è più diretto con la presenza fisica dei guardiani che controllano il cortile del carcere e che aprono e chiudono le porte. Non ci sono più intensi contatti quotidiani fra prigioneri e guardiani. Gli incontri sono diventati una eccezione. Di fatto, il guardiano è pressoché assente: ma la sua ombra è sempre presente attraverso le nuove tecnologie ed i moderni dispositivi. Ovunque ci sono delle telecamere; le porte e le serrature sono controllate elettronicamente. Un solo guardiano è sufficiente per controllare un’intera sezione di 120 prigioneri. Questo nuovo sistema fa sembrare che siano gli stessi prigionieri a controllare, senza interruzione, le proprie vite – addiruttura, sono loro stessi a dover chiudere le porte delle celle – ma in realtà, la situazione non è così. Confrontandosi con un controllo visibile, era possibile “imbrogliarlo”, “negoziare con esso” e renderlo umano. Attualmente, anche i guardiani sono sotto stretta sorveglianza e quindi difficili da influenzare; non esiste lo spazio per discutere con loro e la spontanietà è stata completamente perduta. Le destrezze individuali dei prigioneri e la loro abilità sociale sono diventate del tutto inutili e prive di qualsiasi valore pratico. La disumanizzazione del prigioniero è ancor più facile; le distanze create con l’introduzione della tecnologia nella sorveglianza li ha trasormati da soggetti a semplici oggetti sullo schermo.

La contraddizione fra l’assenza fisica dei guardiani e il totale controllo di ogni aspetto delle vite dei prigioneri genera nei detenuti una dissonanza cognitiva fra il desiderio di mantenere la percezione di essere “sotto controllo” e il fatto che tale controllo non è altro che un’illusione. Le dissonanze, le tensioni e le contraddizioni non finiscono qui. La maniera con la quale la realtà della prigione viene riportata nella letteratura, nelle poesie e da parte dei mezzi di comunicazione di massa, soprattutto quelli arabi, prende spunto da altri periodi molto lontani dall’esperienza attuale dei prigioneri palestinesi. Benché sia convinto che la realtà attuale sia decisamente più dura, non ritengo possibile confrontare il tipico guardiano barbaro della letteratura di allora con la ventenne seduta nel centro di sorveglianza a controllare le vite di 120 prigioneri. La letteratura e la poesia non possono descrivere la sofferenza e la tortura atttualmente presenti. Occorre sviluppare nuovi strumenti per poter interpretare le forme moderne e complesse di tortura. Tali strumenti potrebbero essere presi in prestito dalle scienze sociologiche e filosofiche. L’analisi presente vorrebbe essere uno strumento per comprendere la realtà dei prigionieri palestinesi. Alcune parti riguardano la vera fonte delle loro sofferenze. Le contraddizioni politiche nelle quali viviamo dalla firma degli Accordi di Oslo, ancor di più da quando la seconda Intifada è stata schiacciata, rendono questo compito ancor più arduo. In assenza di una simile illustrazione scientifica, da consegnare alla causa palestinese, siamo soggetti alle interpretazioni israeliane che cercano di distruggere i nostri valori collettivi e rendere il processo di rimodellamento delle nostre coscienze più facile.

Risulta di fondamentale importanza comprendere la strategia dell’IPS che lavora per rafforzare le strutture prenazionali, e cioè, le affiliazioni primarie come la città o la cittadina, l’appartenenza geografica o familiare. Fino a metà degli anni novanta, pensare ed agire secondo i criteri di interessi locali, veniva considerato vergognoso e da combattere. Fra i nazionalisti non c’era spazio per questi pensieri. Al giorno d’oggi invece, chi cerca di pensare e di agire al di là di questa struttura prenazionalista, viene considerato come un ribelle che lavora contro l’autorità della fazione, intesa in termini geografici. Il potere di questa autorità locale viene conferito, da una parte dall’IPS attraverso il trasefrimento dei prigioneri secondo i propri interessi e dall’altra dall’Autorità Palestinese. Quest’ultima, dando potere ai rappresentanti di questa corrente di pensierio, li trasforma in un canale attraverso il quale ricevere maggior sostegno sociale e finanziario. In questo modo, consapevolmente o no, l’Autorità Palestinese rafforza il piano che mira a distruggere i valori collettivi dei prigionieri.

Come conseguenza di questo sostanziale cambiamento, fra i prigioneri sono comparsi alcuni modelli comportamentali piuttosto importanti. Risulta in costante crescita, dopo molti anni durante i quali veniva considerato un taboo, il ricorrere alla violenza per risolvere le dispute. Inoltre, alcuni prigionieri evitano completamente la politica e si concentrano su dei vari passatempo distensivi: siamo di fronte ad una crescita significativa di coloro che si dedicano alla idoneità della loro forma fisica mentre molti altri non fanno che seguire vari programmi televisivi. In generale, rispetto al passato, i prigioneri palestinesi leggono molto meno e si sta assistendo ad una riduzione della produzione intelettuale. Le riunioni, i circoli di studio e le discussioni ideologiche su tematiche nazionali sono sempre meno frequentati. Anzi, siamo di fronte ad un crescente numero di prigioneri che intraprende gli studi accademici presso l’Università Aperta di Israele: per lo più spinti dal loro desiderio di auto-sviluppo e di prepararsi un proprio futuro dopo il rilascio, più che dal proprio interesse per i valori collettivi e nazionali. Semplicemente, si tratta di una forma di fuga dalla realtà.

Come parte del suo meccanismo di controllo della coscienza dei prigioneri, l’IPS ha limitato il numero dei libri che i detenuti possono tenere nelle prorpie celle ponendo delle restrizioni sui loro contenuti. Sono consentiti solamente alcuni libri di narrativa e i libri religiosi, di contro, con il pretesto di “materiale di agitazione”, risultano vietati gli studi scientifici, sociali e politici. Recentemente, i libri di astrologia e altri che trattano altre banalità sono molto diffusi. I giornali arabi, soprattutto quelli politici come Fasl al-Maqal, Al-Ittihad e Sawt al-Haq sono proibiti: l’unico consentito è Al-Quds che raggiunge i prigioneri una settimana dopo la sua pubblicazione. Contemporaneamente i giornali in lingua ebraica possono circolare liberamente senza problemi. Si può ascoltare solamente le stazioni radio israeliane. Anche l’accesso ai canali satellitari arabi risulta limitato: Al-Jazeera è bandita, invece risultano consentiti esclusivamente quei canali considerati aderenti alla “linea araba moderata”.

La presa del potere, con la forza militare, nella Striscia di Gaza da parte di Hamas ha complicato ulteriormente la situazione. Con l’ottica di far crescere i conflitti e spazzare via qualsiasi idea nazionale o valore collettivo, gli ufficiali dell’intelligence hanno fatto diffondere fra i prigioneri false notizie ed informazioni. Di conseguenza, all’interno del carcere sono scoppiati diversi scontri fra i rappresentanti delle due parti. Tali eventi, sebbene limitati, sono stati sufficienti per essere usati come pretesto per intensificare le misure di sicurezza e per separare i prigioneri dei movimenti islamici da quelli di al-Fatah soprattutto nelle carceri al sud. Il silenzio totale in tutte e di tutte le prigioni durante la guerra contro la Striscia di Gaza è stato uno dei “frutti” di questa politica israeliana. I prigioneri palestinesi erano davanti agli schermi televisivi a guardare le partite di calcio trasmesse dai canali satellitari arabi (allora, al-Jazeera era ancora permessa), reagendo agli eventi meno di qualsiasi cittadino arabo, oppure degli stranieri solidali con il popolo palestinese. Niente, nessuna protesta. La violenza dell’IPS ha raggiunto il suo picco quando ha osato ordinare ai prigionieri di non menzionare gli eventi di Gaza durante le preghiere del venerdì in quanto avrebbe potuto provocare delle “agitazioni”. Il silenzio era assordante soprattutto se si tiene presente la storia del Movimento Nazionale dei Prigionieri Palestinesi sempre pronti a manifestare la loro solidarietà con le lotte per la libertà ovunque nel mondo. Nel passato, i prigioneri avevano scatenato delle proteste in solidarietà con i combattenti kurdi nelle carceri turche in sciopero della fame e con Mandela e i membri dell’ANC nelle prigioni del regime razzista sudafricano. Ora invece, e per tutta la durata della guerra contro Gaza, restano lì, deboli ed immobili, a seguire gli eventi senza esprimere neanche a livello simbolico, una parola. Subito dopo la fine della guerra contro Gaza, l’IPS ha ordinato di alzare la bandiera israeliana in tutti i cortili delle prigioni. Ovviamente questa azione è strettamente legata allo stato di impotenza dei prigioneri durante la guerra.

Vorrei concentrarmi su questa impotenza dei prigioneri, non per disonorarli oppure per castigarli. Il mio scopo è quello di dare la prova oggettiva circa il grado di controllo di Israele sui prigioneri attraverso il suo intero sistema politico, le misure, le disposizioni e i regolamenti che nel loro insieme costituiscono il processo di rimodellamento delle coscienze. Anche se nessuna di queste azioni di per sè è profondamente significativa, nel loro insieme risultano orripilanti. La realtà del carcere con tutte le sue complessità, lo sforzo israeliano scientifico e moderno per rimodellare la coscienza di una intera generazione, assieme alla crisi e ai problemi politici della piazza palestinese, rendono impossibile ai prigioneri di emergere, per conto proprio, dal loro stato di impotenza ed agire diversamente rispetto a quanto era successo durante la guerra contro Gaza. La responsabilità di spazzare via questa crisi non dipende esclusivamente dai prigioneri; prima di tutto è responsabilità delle forze politiche, dei comitati che lavorano a favore dei prigioneri e dei comitati per i diritti umani.

Comunque, quel che è avvenuto durante la guerra contro Gaza non è la questione più importante; il problema principale è rappresentato dalla contraddizione e dal conflitto interiore immanente nelle vite dei prigionieri manifestate allora. Il conflitto è fra il modo in cui il prigionero concepisce se stesso e la sua lotta da una parte e la sue difficoltà a spiegarsi l’assenza di tale concezione nella sua condotta quotidiana dall’altra. Nessuno è in grado di effettuare una adeguata valutazione del danno psicologico e morale che tale contraddizione può arrecare: la perdita dell’autostima con tutte le sue future ripercussioni sul conflitto nazionale. Quel che stiamo vivendo oggi, è l’espressione delle sofferenze causate da questo tipo di tortura mentale.

Quando parlo della tortura e della necessità di una sua nuova identificazione, fra le varie cose, mi riferisco alle politiche e ai sistemi indiretti e non usuali sopra citati. L’obbiettivo è quello di agire per un graduale, strisciante e coordinato lavaggio del cervello della collettività politica che va tenuta in tutti modi sotto controllo. L’ex capo dell’IPS, Yaakov Ganot, aveva espresso questo desiderio di controllo in un suo discorso nel 2006, in un cortile nel carcere di Jalbu’a all’indomani della designazione del Ministro della Sicurezza Interna, Gideon Ezra. Ben consapevole che i priginieri lo stavano ascoltando, rivolgendosi al ministro, Ganot ha detto: “Non ti preoccupare, credimi che farò alzare loro la bandiera israeliana e cantare la Hatikva, l’inno nazionale d’Israele”.

 

NOTE
1- G.Levy, “Worse than Apartheid”, Ha’aretz, luglio 10, 2008.
2- La dichiarazione è comparsa più volte sui giornali israeliani; vedi per esempio, l’intervista con Ari Shavit, Ha’aretz, 6 luglio, 2006.
3- B. Kimmerling, Politicide: Ariel Sharon’s War against the Palestinians, London: Verso, 2003.
4- La seguente analisi si attinge da vari lavori come Panopticon di Jeremy Bentham, Discipline and Punish di Michel Foucault, Shock Doctrine di Naomi Klein e vari scritti di Zygmunt Bauman.
5- L’ispezione corporale e la violazione dei sentimenti religiosi, soprattutto il ricorso ai cani, sono  stati usati a Guantnamo e a Abu Ghraib. Vedi Naomi Klein, The Shock Doctrine – The Raise of Disaster Capitalism, Canada: Knopf, 2007, p. 140.
6- La storia è stata ampiamente riportata sui giornali ebraici in data 15 agosto 2004.
7- Vedi  Klein, Shock Doctrine.
8- Il capo dell’IPS, Yaacov Ganot, ha più volte dichiarato che il suo obiettivo è far si che questo sciopero sia l’ultimo.
9- Questo termine si riferisce alla minoranza dei palestinesi che è rimasta nelle proprie case durante la guerra del 1947 – 1948 acquisendo successivamente la cittadinanza israeliana per poter rimanere nel territorio che da allora si chiama Israele.
10- Oltre al cibo fornito dal carcere, ai prigionieri viene consentito di comprare ogni mese 2,5 kg di frutta e verdura ed una quantità analoga di pollo, carne e pesce.
11- Ogni prigioniero riceve mensilmente 500 NIS per le proprie spese alimentari. Questa somma fa parte di una pensione mensile che può raggiungere 1.500 – 1.600 NIS (secondo il numero di anni trascorsi in carcere, le proprie condizioni economiche…).
12- Esiste un badget specifico per i prigionieri rilasciati.
13- Secondo un rapporto del Ministero Palestinese per gli Affari dei Prigionieri, uno dei pagamenti effettuati dall’Autorità Palestinese ad Israele per coprire le multe inflitte ai prigionieri da parte delle corti israeliane ha raggiunto la somma di 2 milioni di NIS, Al-Quds, n. 14378, p. 12.
14- Ibid.
15- Vedi Z. Bauman, Liquid Modernity, Cambridge: Polity Press, 2000, p. 117f.

 

*Walid Daqqa è un palestinese con cittadinanza israeliana. Sta scontando una condanna a vita per il suo presunto coinvolgimento nel sequestro e nella uccisione di un soldato israeliano e per la sua appartenenza al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Durante la sua detenzione consegue il Master in scienze sociali all’Universita Aperta di Israele. Frequentemente pubblica  articoli sulla stampa palestinese.

Articolo pubblicato nel volume:
Threat – Palestinian Political Prisoners in Israel
Edited by Abeer Baker and Anat Matar
Pluto Press, London 2011


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